-di Patrizia Russo-
La famiglia di Valeria Solesin, la giovane donna uccisa negli attentati di Parigi, ha chiesto di tenerne viva la memoria ricordando il suo impegno e diffondendo i suoi studi.
È con profonda amarezza, ma anche con il desiderio di mantenerne viva la memoria che voglio ricordare Valeria Solesin, la sociologa di 28 anni, uccisa nel teatro Bataclan di Parigi venerdì scorso. Valeria viveva a Parigi dal 2009, dove svolgeva l’attività di ricercatrice in demografia all’Ined, l’istituto della Sorbona, dove studiava la conciliazione, ossia il rapporto fra donne e lavoro e le famiglie italiane e francesi nel tentativo di comparare i due sistemi. Aveva lasciato Venezia, la propria città, e quindi la sua zona di “confort” quella cioè della famiglia, degli amici, della propria lingua e cultura, della vita tranquilla. Il perché di questa decisione non lo conosciamo con certezza, ma possiamo ipotizzare che la scelta di fare un’esperienza di vita e lavoro all’estero sia stata fatta per curiosità, spirito di avventura o per cogliere possibilità e occasioni che in Italia non si sono presentate.
Valeria aveva scritto e pubblicato, un paio di anni fa, un interessante articolo sui temi della demografia e delle politiche sociali, dal titolo “Allez les filles, au travail!”, di cui riporto uno stralcio saliente: <Nel 2011, il tasso di occupazione delle donne di età compresa tra i 20 e i 64 anni è infatti del 65% in Francia, contro 50% in Italia. Sempre nel 2011, l’indicatore congiunturale di fecondità è di 2 figli per donna in Francia, mentre in Italia è di appena 1,4 (ISTAT, 2012). Eppure questi due paesi sono relativamente simili in termini demografici: entrambi con una popolazione di circa 60 milioni di abitanti (considerando la sola Francia Metropolitana), e con una speranza di vita alla nascita comparabile. Condividono inoltre aspetti culturali, quali la religione cattolica, e geografici, essendo uniti da 515 km di frontiera. … Alla luce di tali informazioni sembra logico domandarsi come mai due paesi vicini possano distinguersi così profondamente in termini di fecondità e di partecipazione femminile al mercato del lavoro. Una possibile spiegazione è che in Italia, più che in Francia, persista una visione tradizionale dei ruoli assegnati all’uomo e alla donna>. Effettivamente ha senz’altro ragione Valeria nelle sue conclusioni, perché oggi, a distanza di qualche anno, la situazione del gender gap non è per niente migliorata. L’Italia “che lavora” ancora non è un paese per donne, come dimostrato dal Global Gender Gap Report redatto ogni anno dal World Economic Forum di Ginevra. Infatti nel 2014 l’Italia è 69esima su 142 Paesi nelle differenze di genere e scende addirittura al 114esimo posto per la partecipazione femminile nel campo economico e al 129esimo per la parità salariale. L’unica nota positiva è che si trova al 37esimo posto per il numero di donne in politica.
In Italia, come in Europa si sta lavorando attentamente sul contrasto agli stereotipi di genere, ma ancora c’è molto da fare, perché siamo ben lontani dagli obiettivi Europa 2020, che prevede di raggiungere il 75% delle donne occupate. C’è bisogno sicuramente di una classe politica attenta al tema, ma ancora di più c’è bisogno di persone attive, forti, curiose, coraggiose, come Valeria, che voglio mettersi in gioco e cercare di dimostrare che anche a soli 28 anni si riesce a vivere, studiare, lavorare in un’altra città, più grande, lontana, diversa. Quindi per ricordare Valeria, facciamo nostro il titolo che aveva dato al suo articolo “Allez les filles, au travail!”, perché il suo impegno sarà sempre vivo se noi donne decidiamo di essere attive per cercare di cambiare le cose. Non importa fare grandi opere, basta partire dal quotidiano in famiglia, ad esempio condividendo con il partner i compiti di cura e sostegno della famiglia.
Patrizia Russo