Cosa succede in Bosnia Erzegovina a due decenni dalla fine della guerra? Se ne parla venerdì 24 novembre alle 17 alla Gipsoteca dell’Università di Pisa, in occasione della presentazione del libro “Il Paese che non c’è. La Bosnia Erzegovina tra transizione, contraddizioni e diritti negati”, libro reportage di Simona Silvestri, pubblicato da Infinito edizioni (settembre 2017). L’associazione Evelina De Magistris ha organizzato l’incontro. Dialoga con l’autrice Mafalda Toniazzi, dell’Università di Pisa, introduce Stefano Landucci .
Il libro si concentra sul racconto di un Paese dalle mille contraddizioni, arricchito dalle storie e dalle testimonianze di alcuni dei protagonisti della storia bosniaca degli ultimi anni, tra cui Jovan Divjak, il generale serbo che difese la città di Sarajevo, o Kemal Kurspaic, direttore dell’Oslobodjenje, il quotidiano che, nonostante l’assedio, non smise mai di uscire per le strade di Sarajevo. Il libro – che contiene contributi di Massimo Zamboni, scrittore e musicista, Azra Nuhefendic, giornalista de Il Piccolo e scrittrice, e Andrea Cortesi, direttore di Iscos Emilia-Romagna – è un viaggio alla scoperta di una ‘nazione non nazione’, ancora sospesa tra contraddizioni, diritti negati e crisi sociale, incapace di trovare un’identità unitaria.
A distanza di due decenni, la Bosnia Erzegovina paga ancora care le decisioni di Dayton, a cominciare dalla frammentazione definitiva della società in gruppi etnici sempre più distanti tra loro, causa di tutti i mali. Intrappolata nella morsa dei partiti nazionalisti e in un sistema burocratico pachidermico che di fatto ne impedisce lo sviluppo, governata da una ristretta elite corrotta e famelica – sempre più ricca a discapito di una maggioranza poverissima -, il Paese sta vivendo oggi una profonda crisi sociale, economica e politica che ne impedisce l’emancipazione in democrazia adulta, autonoma e capace di promuovere la crescita e i pieni diritti dei propri cittadini.
Al di fuori dei suoi confini, oggi si parla di Bosnia Erzegovina solo per ipotizzare strampalati scenari che la vorrebbero un paese in preda al fondamentalismo islamico, testa di ponte in Europa dei terrotisti dello stato islamico: uno stereotipo, un po’ come quello che descrive il Paese costantemente in preda ad odi atavici, destinati a durare per i secoli dei secoli. Lontano dagli occhi, ma non dal cuore di quell’Europa che guarda ai cugini balcanici come a un popolo bellicoso e rozzo, condannato a vivere per sempre nel caos, dato per perso.
Eppure, soprattutto in un tempo in cui i nazionalismi segnano sempre più forte la loro avanzata e la religione diventa terreno di scontro per emarginare le minoranze, la Bosnia rappresenta un punto d’osservazione privilegiato, un laboratorio dove analizzare tendenze e fenomeni politici e sociali accaduti qui prima che altrove.
Il libro è un tuffo nella complessità di una nazione che ancora oggi produce molta più storia di quanta ne possa digerire, a partire dal confronto tra le storie dalle grandi città, come Sarajevo, Mostar e Tuzla e dei piccoli centri colpiti dalla crisi, passando per l’analisi delle tensioni sociali e i diritti negati alle minoranze, come quella Rom, e alla comunità Lgbti. Ad arricchire la narrazione, il racconto delle storie legate ad alcuni simboli del Paese, come la Biblioteca di Sarajevo, la cui rinascita si è trasformata nell’ennesimo terreno di scontro, o il genocidio di Srebrenica, con le interviste ad alcuni giovani che hanno scelto di tornare per far rivivere la città dove nel luglio del 1995 furono trucidati circa diecimila musulmani, molti dei quali ancora aspettano di essere sepolti.
Associazione Evelina De Magistris