Fascismo, guerra e Shoah nel calcio. Di questo ha parlato Massimo Cervelli, nel seminario di approfondimento sui temi della memoria che si è tenuto giovedì 18 febbraio alla biblioteca comunale di Cascina. Ad ascoltarlo gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado. Cervelli ha raccontato le storie di Árpád Weisz e Erno Erbstein. Weisz, calciatore di nazionalità ungherese, dopo un infortunio iniziò una brillante carriera di allenatore vincendo uno scudetto con l’Inter, ad appena trentaquattro anni, e altri due con il Bologna. In quanto ebreo fu vittima delle leggi razziali del 1938 e si rifugiò in Olanda. Deportato ad Auschwitz, morì dentro una camera a gas. Fu autore anche di un manuale di calcio ad uso degli allenatori. Erbstein fu un giocatore e allenatore di nazionalità ungherese che in Italia guidò varie squadre tra cui Cagliari, Bari e Torino. Fuggito in Ungheria, fu rinchiuso in un campo di lavoro da cui riuscì ad evadere per darsi alla vita clandestina. Tornò in Italia a guerra finita per allenare il “grande Torino” e morì nella tragedia di Superga del 4 maggio 1949.
«Il fascismo non inventò niente – ha spiegato Cervelli – ma colse in modo perfetto l’aspetto propagandistico che lo sport, il calcio in particolare, poteva regalare al regime in termini di organizzazione del consenso. Mussolini non fu uomo di sport, anche se faceva sfoggio delle proprie presunte abilità di schermitore e nuotatore, non capiva il calcio. Propendeva per un utilizzo dello sport propedeutico all’esaltazione dello spirito nazionalistico e alla preparazione militare del cittadino-soldato. La funzione politico-sociale dello sport fu di convogliare la gioventù e di tenerla lontana dalla lotta di classe. Il duce credeva alla funzione di pedagogia patriottica delle attività organizzate dall’Opera nazionale Balilla e Dopolavoro: saggi ginnici, tiro alla fune, bocce, esercitazioni».
«Il fascismo si doveva misurare con il tema inedito dell’organizzazione di un sistema sportivo nazionale, un processo di razionalizzazione e di modernizzazione risolto affidando al Coni il governo di tutto lo sport e mettendo il Coni, con la designazione di Lando Ferretti, alle dipendenze del Partito nazionale fascista. Ferretti, nel 1928 capo ufficio stampa di Mussolini, fascistizzò lo sport pur mantenendo al loro posto gli arrendevoli dirigenti sportivi. Nessuno fu cambiato dal Coni, ma in tutte le federazioni, d’ora in poi, le nomine arrivarono dall’alto e furono di natura politica. Il gerarca, e squadrista, Arpinati, per esempio, diventò presidente della Federazione italiana gioco calcio dal 1926 al 1933. Arpinati spostò la sede federale a Bologna, città di cui era podestà, e nel 1929, diventato sottosegretario al Ministero degli Interni, a Roma».
«Ci fu spazio anche per il folklore con l’italianizzazione del nome delle squadre: l’Internazionale divennne, nel 1928, Ambrosiana, dopo la fusione dell’Unione sportiva Milanese, una vecchia realtà calcistica, con l’Inter. Il Genoa cambiò nome volontariamente in Genova nella stessa stagione, 1928-29, mentre il Milan resiste fino al 1939 quando si italianizza in Milano. Nel 1927 il fascio littorio venne unito allo stemma sabaudo sulla maglia della nazionale, mentre la nazionale universitaria adottò la maglia nera. Il processo di fascistizzazione fu completato dall’introduzione, all’inizio degli anni Trenta, del saluto romano, prima dell’inizio di ogni gara, da parte delle squadre».
«Il fascismo decretò, anche in campo calcistico, l’autarchia – ha concluso Cervelli – mettendo al bando i giocatori stranieri che, soprattutto danubiani, erano serviti ad innalzare il livello tecnico e tattico delle squadre italiane. Alla dichiarazione d’autarchia corrispose, in linea con le menzogne del regime, l’assalto ai talenti calcistici sudamericani, prelevando dall’Argentina e dall’Uruguay i migliori giocatori – saranno oltre cinquanta ad arrivare in Italia, facendo la storia delle squadre più forti dell’epoca (Juventus e Bologna in particolare). Oriundi, italiani di oltremare, italiani per vincolo di sangue che, per il fascismo, contava di più della nazionalità. Un dato su tutti: nella vittoriosa finale della Coppa del mondo 1934 l’Italia si schierò ben tre giocatori (Monti, Guaita, Orsi) che avevano già giocato per la nazionale dell’Argentina».