di seguito l’articolo di Repubblica.it (a cura di Raffaele Ricciardi)
“Il Re Fisco è nudo”: dalla Web tax all’Irpef, come riformare le tasse e renderle più eque
Milano – La politica accarezza l’idea di inserire una sorta di web tax, nella forma di accordi preventivi tra Entrate e giganti di Internet, per reperire risorse da spendere altrove. Google si accorda con il Fisco e versa oltre 300 milioni per sistemare i conti del passato. In un Paese che ogni due per tre si scopre ai vertici per la pressione fiscale e contributiva sugli stipendi, si cerca di attirare i ricchi stranieri proponendo una tassa forfettaria sui redditi esteri. La questione fiscale è sempre all’ordine del giorno, in attesa che si realizzi la madre delle riforme dell’Irpef. Con tante proposte e molti piccoli provvedimenti, che spesso sollevano un polverone su nodi difficili da sciogliere. “Il Re Fisco è nudo” dice – in un libro appena aggiornato per i tipi di Franco Angeli – Alessandro Giovannini, ordinario di diritto tributario nell’Università degli studi di Siena, e invoca fin dal sottotitolo “un sistema equo” (Franco Angeli, Nuova edizione aggiornata 2017, 212 pagine, 20 euro).
Professore, si intensificano i ragionamenti sulla Web tax. Crede sia giusto imporre ai giganti del web una attenzione particolare, e come strutturare il balzello loro dedicato?
La tassazione del commercio elettronico è necessaria e la discussione che si è avviata col recente G7 è sacrosanta. Trovare la convergenza tra i giganti della terra, tuttavia, non sarà facile, perché in ballo ci sono interessi economici giganteschi. Solo in Italia il commercio elettronico sposta circa 30 miliardi all’anno e da qui a due o tre anni arriveremo a quota 50. Se l’Europa non si muoverà compatta e neppure si muoveranno i 7 grandi dell’economia mondiale, la soluzione va ugualmente trovata a livello Paese. Dobbiamo proteggere il reddito nazionale, senza “se” e senza “ma”, con una legislazione adeguata e la soluzione, sul piano tecnico, non è difficile da trovare.
Sarebbe?
Se acquisto sul web uno smartphone oppure un libro, significa che quell’acquisto non lo farò al negozio sotto casa e significa, di conseguenza che impoverirò non soltanto il negoziante ma anche la mia nazione perché i soldi destinati all’acquisto finiranno nel paese dove la piattaforma commerciale ha la sua sede (Cina, USA, o chi sa dove). Proprio in questo impoverimento si deve rintracciare il presupposto della tassazione. E non vi è niente di male nel proteggere la nostra ricchezza. Anzi.
Sempre in tema digitale, con la recente “imposta Airbnb” si fa un passo ulteriore e si dà anche l’onere del sostituto d’imposta: come la giudica?
Positivamente. Occorre ripensare le nostre categorie concettuali e giuridiche. Non possiamo illuderci di usare le vecchie categorie per inserirvi dentro i grandi cambiamenti che l’evoluzione tecnologica ci impone. La quarta rivoluzione industriale cambierà radicalmente la nostra società e dovremo rispondere alle grandi modifiche dell’economia con oltre 3 milioni di disoccupati in più in Europa e circa 300 mila in Italia. Pensare a quali risorse avrà lo Stato per occuparsi del welfare e dei bisogni delle persone è una priorità.
Il pilastro dell’equità fiscale che permea il suo testo è la “dignità della persona”. La considera rispettata davanti alla promessa di una tassa a forfet per i ricchi stranieri?
Pur con l’intenzione legittima di attrarre capitali in uscita dal Regno Unito, quella misura non lega il beneficio fiscale alla “importazione” dei redditi in Italia, al loro investimento in attività produttive o in consumi, alla loro permanenza nel nostro paese, e concede l’agevolazione per un periodo di tempo lungo, quindici anni. Di conseguenza, si rischia di vedere frustrato lo scopo stesso della sua introduzione che pure, di per sé, è da prendere in seria considerazione anche, semmai, per dissipare i dubbi sul diverso trattamento riservato ai “residenti indigeni” italiani.
Il suo è un discorso a più ampio respiro. Perché l’Italia non è equa?
Abbiamo un sistema vecchio, riformato in maniera organica agli inizi degli anni ’70 per mano di uomini, pure illuminati, formatisi negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso. Abbiamo un sistema che non riesce a colmare le diseguaglianze e che alimenta fenomeni d’illegalità. A tutto questo fa da contraltare un’alta pressione fiscale solo su alcuni redditi, che “fabbricano ricchezza” alla luce del sole: la parte sana del paese rischia così di annegare.
Lei dice che “la staticità degli schemi impositivi è un male perché contribuisce ad accentuare le iniquità”. E propone una riforma radicale del sistema, non più sforbiciate qua e là. Se dovesse fare un cronoprogramma di riforma fiscale, quali leve attiverebbe per prima?
Lo riassumo in “3D”: “digitalizzare il fisco”; “destrutturare le imposte” e “dichiarare in accordo”. La prima: sono da rendere obbligatori, in forma digitale, gli adempimenti collegati alla fatturazione e ai pagamenti; bisogna sfruttare l’enorme mole di dati già a disposizione dell’Agenzia delle entrate, della Gdf e di Equitalia, con la costituzione di un centro informativo unitario tra tutte le intelligence, comprese quelle non fiscali. La seconda: destrutturare l’Irpef, portando fuori dalla sua base imponibile tutti i redditi di capitale e finanziari, da assoggettare ad una separata imposizione progressiva al netto dei costi, e i redditi immobiliari, anch’essi da assoggettare ad una separata tassazione progressiva. In questo contesto è poi indispensabile rivedere l’imposta sulle società (IRES) rendendola anch’essa progressiva, similmente alla Gran Bretagna, al Belgio o all’Olanda, con aliquote più basse dell’attuale. Inoltre, occorre incentivare gli investimenti esterni (nazionali o internazionali) in attività non speculative o finanziarie. La terza cosa da fare è rivedere il procedimento di dichiarazione e d’accertamento: immaginare un accordo preventivo tra Stato e contribuente che pesi il reddito ex ante per due o tre anni e dare a questo accordo efficacia di titolo esecutivo, se non rispettato (magari dopo qualche SMS di sollecito). Avvicinare la riscossione al momento della produzione della ricchezza è un’esigenza fondamentale.
Il tema della riduzione del numero di aliquote Irpef è sul tavolo, ciclicamente rispunta la “flat tax”. Come intervenire in maniera efficiente?
All’orizzonte non intravedo un disegno organico e strutturalmente adeguato alle esigenze della finanza pubblica. Mi sembra che l’idea della flat tax risponda più all’esigenza di denunciare due grandi mali della cosa pubblica: l’evasione incontenibile e intollerabile per gli operatori economici ed i contribuenti onesti, e l’elevata pressione fiscale su alcune categorie di contribuenti, ad iniziare dagli imprenditori, anch’essa non più tollerabile. Secondo la Banca mondiale, quella sulle imprese sfiora il 65 per cento, contro una media UE del 40. Che dire?
Parla di spesa pubblica nei termini di “uno sperpero divenuto vero e proprio ordinario sistema di gestione”. Ma non affida alla revisione della spesa il compito di reperire risorse per ridurre la pressione fiscale. Si può fare una riforma fiscale equa a “costo zero”?
Si può fare. Pagare equamente e pagare tutti è possibile. Le risorse vanno trovate anche contrastando e prevedendo imposte per ricchezze o attività oggi intonse. Penso ad una “food tax per i cibi spazzatura”, alla “sugar tax”, alla bit tax o alla tassazione delle transazioni finanziarie, alla tassazione dei proventi della digital economy e ai tributi ambientali. Ovviamente per queste riforme serve capacità progettuale e tecnica perché dobbiamo garantire la difesa del reddito nazionale senza pregiudicare la capacità di sviluppo tecnologico.
Esiste poi un’elusione (soprattutto transnazionale) alla quale molti Stati ammiccano, in nome della necessità di concorrere anche dal punto di vista fiscale. Dove sta il limite tra il tentativo di attrarre imprese e capitali e il senso di giustizia fiscale?
Più che dei limiti vorrei si discutesse della posta in gioco: il “tributo merce” attenta alla pace sociale e mina le comunità perché crea una competizione distruttiva tra gli Stati.
Per affrontare i casi Apple e via dicendo, propone una cessione di sovranità impositiva all’Europa. Crede che in questo clima sia realmente pensabile?
E’ una strada in salita. Non credo, però, che i singoli stati europei, per come li conosciamo oggi, possano sopravvivere a lungo: rischieremmo tutti una marginalità culturale ed economica le cui conseguenze sarebbero disastrose. I negoziati per la Brexit sono per ora caratterizzati dalla grande unità d’intenti dei Ventisette: la stessa unità o consapevolezza deve essere trovata per elaborare una piattaforma impositiva comune, pur lasciando margini di manovra ai singoli paesi. Bisogna superare i concetti di territorio, residenza e anche quello di stabile organizzazione, compresa la stabile organizzazione virtuale. Sono nozioni non più adeguate alle nuove realtà e che, anche se aggiornate, non porterebbero molto lontani.
Crede che il Fisco possa essere davvero “amico” del contribuente, un giorno?
Il “fisco amico” non esiste. È solo una formula del linguaggio efficace per la comunicazione. Quello che si può e si deve pretendere dallo Stato, al di là degli SMS, pure utili, è il ferreo rispetto delle regole di comportamento e dei diritti dei contribuenti. Questo si può e si deve pretendere. E poi è indispensabile una reale e radicale semplificazione. Lo sforzo è di nuovo e prima di tutto culturale, etico e di visione. Bisogna saper “guardare oltre”.
in copertina: Alessandro Giovannini professore di diritto tributario dell’Università di Siena