È considerato uno dei più grandi predatori mai esistiti sulla faccia della Terra, con esemplari che potevano superare anche i sedici metri di lunghezza e si ritiene che le sue enormi fauci potessero mordere con una forza dieci volte maggiore di quella dell’odierno squalo bianco. È il Carcharocles megalodon, un gigantesco squalo estinto che ha ispirato celeberrimi mostri marini del mondo del cinema, come il terrificante protagonista de “Lo Squalo” di Steven Spielberg, diventando una vera e propria icona pop.
Questo terribile killer del passato è stato identificato dai paleontologi grazie ai suoi resti fossili (principalmente denti e vertebre dalle dimensioni strabilianti ritrovati all’interno di sedimenti marini depositatisi tra 20 e 3 milioni di anni fa circa), ed è ormai ben noto al grande pubblico come uno spietato cacciatore delle balene degli antichi mari. Tuttavia, al netto delle speculazioni, fino ad ora le testimonianze fossili non offrivano molti dati oggettivi circa le abitudini alimentari di questo animale dalla fama leggendaria. Ma una recente ricerca coordinata dai paleontologi dell’Università di Pisa potrebbe gettare un po’ di luce su questi aspetti enigmatici della storia naturale del “Megalodon”.
Da oltre dieci anni l’Università di Pisa, in collaborazione con quelle di Camerino e Milano-Bicocca e con diverse istituzioni peruviane ed europee, conduce ricerche nel deserto costiero del Perù meridionale: una delle aree più ricche al mondo di fossili di cetacei, squali, uccelli e rettili marini. Gli scheletri di questi vertebrati affiorano dalla sabbia del deserto eccezionalmente conservati e spesso ancora perfettamente articolati. I sedimenti che li racchiudono si sono depositati nel corso di milioni di anni su un antico fondale marino, poi emerso a seguito degli intensi movimenti della crosta terrestre che interessano il versante occidentale della catena Andina. “Uno dei nostri obiettivi – afferma Giovanni Bianucci, professore di paleontologia presso il dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e coordinatore delle ricerche in Perù – è quello di ricostruire, grazie allo studio dei fossili, l’intera fauna che visse in questi mari. Tuttavia non vogliamo limitarci a dare un nome agli animali ma, sopratutto, capire come interagivano tra loro, di cosa si nutrivano e come si sono evoluti nel corso dei milioni di anni”.
In questo tipo di studi, non sono sempre i reperti fossili più completi e spettacolari a fornire i dati più interessanti e inaspettati, ed è infatti su alcune ossa frammentarie, risalenti a circa 7 milioni di anni fa, che i ricercatori pisani e i loro colleghi hanno scoperto le lunghe incisioni lasciate dal morso di un grande squalo.
“L’approfondita analisi e lo studio di queste tracce – spiega Alberto Collareta, dottorando presso il dipartimento di Scienze della Terra di Pisa e responsabile dello studio pubblicato nella rivista internazionale “Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology” – hanno permesso di identificare sia gli animali ‘morsicati’ che il responsabile del morso. I primi sono rappresentati da foche e cetacei (fra cui la Piscobalaena nana, una balena di piccola taglia appartenente alla famiglia oggi estinta dei Cetotheriidae), mentre il loro predatore è ragionevolmente identificabile in Carcharocles megalodon, i cui denti sono gli unici che, per forma e dimensioni, possono aver prodotto le tracce osservate.
Questo è un risultato di per sé importante, perché per la prima volta possiamo dare un nome specifico a uno degli ‘ingredienti’ della dieta del Megalodon; ma è anche intressante il fatto che la Piscobalaena nana fosse un mammifero marino di dimensioni relativamente piccole (presumibilmente non superava i 4-5 metri di lunghezza) perché contraddice la credenza secondo cui il Megalodon si nutriva esclusivamente di grandi balene.
Se facciamo un parallelo con le abitudini alimentari dello squalo bianco, considerato un analogo moderno e ‘miniaturizzato’ del Carcharocles megalodon, possiamo ragionevolmente ipotizzare che questo gigantesco squalo estinto avesse una dieta ampia e diversificata che, pur comprendendo pesci e molluschi era comunque incentrata sui mammiferi marini di media taglia (foche e cetacei). Al contrario, l’ipotesi secondo cui C. megalodon era un attivo predatore di grandi balene non appare adeguatamente supportata dai dati attualistici. È anche possibile ipotizzare che l’estinzione delle balene di piccole dimensioni, fra cui i Cetotheriidae, intorno ai 3 milioni di anni fa (cioè alla fine del Pliocene) abbia privato questo grande predatore delle sue prede predilette, favorendone l’estinzione”.
“Il nostro studio – conclude Bianucci – non solo contribuisce a conoscere la biologia del più grande squalo mai esistito, ma anche a chiarire le dinamiche evolutive che hanno portato ai grandi cambiamenti nella fauna marina, spesso legati al rompersi di delicati equilibri tra prede e predatori, fino alla messa in posto della fauna attuale”.